A Natale solo un’arancia!

Con l’augurio di un sereno Natale vi dedico un racconto tratto dal libro “Generazione Decrescente” che sarà sicuramente spunto di riflessione.

Mio nonno Giuseppe, nato nel 1924 e morto nel 2009, ha segnato indelebilmente il mio immaginario e il mio approccio con il mondo. Ciò che mi ha lasciato in eredità, andandosene, sono state cose ben più importanti che non soldi o proprietà: un enorme senso del dovere e del rispetto, un’apertura mentale decisamente superiore alla media italiana, e soprattutto numerose pillole di saggezza. Che, spesso sottoforma di aneddoti o aforismi, riescono ancora oggi ad aiutarmi in ogni aspetto della vita quotidiana.

Mio nonno Gep, come lo chiamavano tutti, si vantava giustamente del fatto che, uscito di casa dei suoi genitori “senza nemmeno un cucchiaio”, era riuscito con il suo lavoro a comprare casa e mettere su famiglia. Certo i tempi in cui è vissuto glielo hanno permesso, una volta superate le durissime prove della fame e della guerra, e l’autostima proveniente dalla possibilità, oltre che capacità, di farsi da solo è stata aiutata da una situazione di “boom” economico e sociale che, oggi, uno della mia età non si potrebbe nemmeno sognare (a meno di rassegnarsi all’idea di passare attraverso il terribile filtro di un’altra guerra mondiale).

C’era però una cosa che, fin dall’adolescenza, mi faceva pensare a mio nonno come a una persona sotto certi aspetti (e paradossalmente) più fortunata di me: la capacità, figlia proprio delle brutture passate in gioventù, di godere e gioire anche delle più piccole cose. Quando andavo a trovare i miei nonni, generalmente alla domenica per pranzo, sapevo sempre che nel pomeriggio sarebbe arrivato il momento del racconto del nonno. Gli argomenti più frequenti erano le bravate fatte da ragazzo, le esperienze da prigioniero in periodo di guerra e, appunto, la fame e la povertà vissute nell’infanzia e nell’adolescenza.

Le storie di mio nonno, sempre piene di sorprese, erano in qualche modo delle lezioni di storia contemporanea, e per un ragazzino del mio tempo erano a dir poco incredibili: sentire una persona così vicina parlare di cose da me viste solo nei film era impressionante. Come poteva questo mio vecchio compagno di gioco di carte e giri in bicicletta potere aver visto persone uccise al suo fianco, essere fuggito da una prigione tedesca fingendosi morto in un cumulo di cadaveri, o avere passato interi giorni senza toccare cibo, fino al momento in cui si riusciva a catturare un gatto (sì, un gatto) da buttare in pentola?

Eppure, fra tutti i racconti pieni di morti, bombe e altri elementi ben più efficaci dal punto di vista dell’intrattenimento, ce n’è stato uno che, inspiegabilmente, fin dalla prima volta mi aveva toccato più degli altri: quello dell’arancia ricevuta in regalo per Natale. Una storia molto dolce, pacata, quasi noiosa rispetto alle altre piene di colpi di scena da film hollywoodiano. Che, però, è stata sempre quella che mi ha fatto più riflettere su quanto i tempi, da mio nonno a me, fossero davvero cambiati.

aranciadinatale

Un’arancia, nei primi anni ‘30, non era una cosa che si trovava così facilmente, nella campagna lombarda di mio nonno bambino. Tipico frutto invernale, considerato quasi esotico, veniva raccolto a novembre nel sud Italia, e si poteva vedere nelle regioni settentrionali solo dopo parecchi giorni. Un prodotto, come diremmo oggi, che non tutti si potevano permettere, e che veniva visto come un bene di lusso, nelle famiglie povere come quella di mio nonno. Che, all’età di 9 anni, la ricevette come dono natalizio.

Un’arancia come regalo di Natale, proprio così. E che regalo! La gioia del piccolo Gep per quel dono, infatti, lo aveva portato a prendersene cura per settimane, prima appendendola all’albero di Natale per vederla tutti i giorni, poi pulendone la buccia e contemplandola senza però osare mangiarla. Se l’avesse mangiata, infatti, non ne avrebbe più avuta una. Una riverenza eccessiva, però, che portò mio nonno a non poterla più mangiare: sì, aveva rinviato il momento in cui concedersi di sbucciarla talmente a lungo che la dovette buttare via.

Immaginate la delusione. Eppure, di quell’esperienza, vedevo che mio nonno aveva conservato non il rimpianto per non avere “consumato” la sua passione per quel frutto, ma il ricordo di giorni che, insieme al suo frutto, erano stati ben più dolci di quanto potesse essere il sapore di tutte le arance del mondo. Cosa è rimasto invece a me di quel breve racconto? Lo stupore per l’entusiasmo che si può provare per una cosa così semplice e apparentemente banale come un frutto. Un ardore inimmaginabile per una persona della mia età, almeno nei Paesi “sviluppati” del ricco Occidente, anche per cose ben più “di valore” di una semplice arancia, che temo di non avere mai provato in vita mia.

Non credo di essere stato un bambino particolarmente viziato, anzi. Eppure sono sicuro che per provare un’euforia simile a quella del nonno Giuseppe per quel semplice regalo ho dovuto aspettare la mia prima moto. E il paragone tra i due oggetti in questione la dice lunga sul gap generazionale tra me e il Gep, oltre che sul differente bisogno di soldi e di risorse naturali per soddisfare le nostre esigenze. Ora, il mio intento non è quello di iniziare con la solita manfrina per cui “si stava meglio quando si stava peggio”, non essendo per altro vissuto ai tempi di mio nonno, né tanto meno quello di far credere di invidiarlo per non avere avuto nemmeno di che cibarsi, in certi momenti. Ma come dicevo questa storia dell’arancia natalizia mi ha fatto riflettere dalla prima volta che l’ho sentita. E mi ha fatto giungere ad una amara conclusione: che la società dei consumi è una brutta bestia, e ne ha generate di altrettanto brutte. Sono le orde di eterni adolescenti viziati e scontenti che, crisi o non crisi, non saranno mai soddisfatti di quello che hanno. Si tratti di case, auto, vestiti, smartphone o relazioni umane, chi non ha imparato a conoscere l’entusiasmo per le piccole cose non sarà mai felice, né mai renderà tale qualcuno. Alla faccia delle pubblicità e delle frivole promesse che ci vengono fatte dalla nascita solo per venderci qualcosa, il destino degli eterni scontenti è segnato. E non lascia presagire nulla di buono, a meno che non venga cambiato.

Racconto tratto da : “Generazione Decrescente –  Riflessione semi-autobiografica sul mondo che è e che potrà essere” di Andrea Bertaglio

Mariangela Martellotta

 

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