Il vinosanto affumicato: la quintessenza di un terroir

Un prolungamento della Toscana e un’anticipazione del Lazio in quelle sottili variazioni di paesaggio che sono il segreto dell’Italia centrale. E di quell’Umbria che custodisce gelosamente i tesori di un trascorso di usi, costumi e consuetudini.

Un passato di inevitabile fratellanza tra la tradizione culinaria e la vita quotidiana (quasi contadina), che svela il ruolo d’importante centro abitato rivestito da taluni territori della regione, primo fra tutti l’Alta Valle del Tevere. Un lembo del Bel Paese in cui sopravvive intatto il culto della ritualità familiare, associato al vinosanto affumicato, un’eccellenza del paniere agroalimentare ancora poco diffusa oltre i confini regionali.

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Compagno di convivi toscani ed umbri, il vinosanto della Valle altotiberina si arricchisce di un alone di mistero, misto a nostalgia, legato all’alchimia che la Natura è capace di regalare. Ed infatti, rimanda ai secoli oramai lontani l’abitudine di appassire le uve nelle cucine delle case mezzadrili, laddove il camino – già in autunno – ardeva di fumi della legna raccolta nei campi limitrofi. Così i grappoli, appesi alle travi del soffitto del locale, si lasciavano attraversare dai profumi dell’ambiente, acquisendo un delicato retrogusto fumé.

Il binomio tra gastronomia e “mondo” di antichi mestieri continua nell’Ottocento, quando l’arte di produrre il vinosanto si intreccia con quella di trasformazione del tabacco. È nei locali destinati all’essicazione delle foglie di tabacco che iniziano ad essere asciugati i grappoli; è a quel periodo che risale la inconsueta abitudine di immergere le foglie della pianta nel nettare ricavato da uve bianche.

Ritualità e gesti che giungono quasi intatti sino ai nostri giorni, mentre le uve traggono da quella terra la propria linfa: Trebbiano, Malvasia, Grechetto, Canaiolo, Vernaccia di San Colombano, raccolte a maturazione non eccessiva per assicurare una buccia capace di resistere al processo di lavorazione (3 o 4 mesi). I grappoli, una volta pigiati, vengono lasciati a fermentare in botti di legno assieme al lievito madre che ogni famiglia custodisce, per poi riposare in locali ben areati, ma soggetti a sbalzi di temperatura stagionali. Il risultato è un vino dai toni ambrati, prezioso, in quanto custode del patrimonio culturale delle genti di queste terre, e di quel complesso aromatico di spezie e frutta secca che richiama alla memoria gli odori autunnali della Valle.

Emblema dello scorrere delle generazioni e del legame tra passato e presente, il vinosanto sintetizza nel calice la fiera appartenenza a quel crocevia di fermenti artistici e culturali dell’Alta Valle del Tevere.

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Manuela Mancino

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