L’Osteria del Povero Diavolo: quando la cucina diventa una “esperienza” dai mille volti

Esistono luoghi dai quali si esce con il desiderio di farvi immediatamente ritorno. È questa la sensazione che si prova non appena lasciato alle spalle l’uscio dell’Osteria del Povero Diavolo, a Torriana.

Tra le valli del Marecchia e dell’Uso, infatti, si nasconde un locale che definire ristorante gourmet appare riduttivo e, comunque, non pienamente rappresentativo della sua anima: una tavola che diventa un’ “esperienza”, non solo per la qualità della proposta, ma perché offre quell’elegante accoglienza di un tempo, oramai dimenticata. A tener alto il blasone delle “sane” consuetudini di un tempo i proprietari, Fausto e Stefania, che fanno sentire accolto l’avventore sin dal primo istante. Autentici nel loro stile, nel loro saper far sentire l’ospite ben accetto ed immerso in un’atmosfera familiare, con un quel q.b. di nostalgia per il passato, in un’epoca in cui si è persa la valenza del contatto umano e con l’ambiente circostante.

Dal desiderio di sottrarre quest’angolo d’Italia dalla rincorsa alla eccessiva standardizzazione, nasce l’idea di creare una piacevole oasi in cui perdersi, leggendo libri di cultura locale, narrativa e saggistica, immancabili compagni dei clienti che qui arrivano per riappropriarsi dei propri ritmi e godere dei colori della natura.

Una scelta coraggiosa dietro la quale si cela il forte amore per il proprio lavoro e un profondo legame per le proprie origini; sentimenti che motivano quotidianamente Fausto e Stefania a proseguire lungo un percorso di riscoperta del terroir. Di quello stesso territorio che sconta ancora l’immaginario collettivo di riviere modaiole, omologazione dei menu, piadine e cappelletti. È grazie a loro, dunque, che prende avvio un’azione di rinascita della cultura romagnola latu sensu, quando, nel 1990, rilevano la vecchia “Osteria del Povero Diavolo”, nata nel 1915 sulle fondamenta di una cucina prettamente casalinga.

Da allora, sfide ed ostacoli attenderanno i coniugi, sempre fedeli al loro credo e sempre attenti a non cedere alle lusinghe delle coeve tendenze che, proprio in quel periodo, contribuivano a creare un errato stereotipo di questo lembo di Bel Paese. Una sfida continua che, tuttavia, non spegne ma fomenta la passione di coloro i quali perseverano nel desiderio di fare di Torriana una meta, lontana dalle battute rotte turistiche, capace, però, di riservare piacevoli sorprese. Così, nel 1998, nasce la Locanda con poche stanze, curate negli arredi, nelle quali ritirarsi dopo aver ceduto ai piaceri del palato, alla ricerca di attimi di riflessione per ripercorrere l’esperienza enogastronomica appena conclusa.

Un viaggio tra sapori e saperi inaspettati il menu proposto da Pier Giorgio Parini, che sembra aver trovato nella sensibilità dei proprietari l’humus ideale per coltivare la propria vena creativa. Non solo una cucina “tecnica” e sorprendente negli accostamenti, ma anche un’arte che svela la rigorosa conoscenza della materia prima e metodi di cottura, impreziosita dall’estro dello chef. Nel piatto, dunque, non si ritrovano solamente qualità degli ingredienti, giochi cromatici e di consistenze, ma l’indole di Pier Giorgio: ogni creazione sembra raccontare e riflettere il suo essere, il suo stato d’animo e regalare all’ospite una cucina di passione. E di espressione: espressione di un talento, espressione di una filosofia incentrata sulla freschezza e stagionalità degli ingredienti (molti provenienti dall’azienda agricola della famiglia Parini), nonché espressione del sapiente utilizzo di erbe aromatiche e spezie che intriga il palato.

Il menu, rigorosamente a sorpresa, è assieme un invito a riflettere e un omaggio alla natura, un momento per lasciarsi guidare dalla maestria dello chef e provare nuove sensazioni e suggestioni. Ed allora, per comprendere appieno il valore sotteso ad un percorso costruito attorno al file rouge dell’interpretazione “geniale” ed “autentica” della tavola, abbiamo rivolto a Pier Giorgio qualche domanda.

Quando inizia la tua passione per la cucina? Esiste un momento, un luogo o una precisa esperienza cui ricondurla?

In realtà, non saprei. Posso definirla come una vera e propria passione, uno stile di vita e per me è difficile separare vita privata dal lavoro. La cucina ti toglie molto e, al tempo stesso, ti regala molto

Quando hai capito che il tuo destino era quello di divenire uno chef?

È stato un lungo percorso, una decisione maturata negli anni: ad un certo punto, ho capito che il mio stile di vita non mi dava più soddisfazioni…avevo bisogno di nuovi e continui stimoli. Mi ritengo fortunato, in quanto amo il mio lavoro, anche se è difficile trovare un equilibrio con la vita privata

La tua filosofia, basata anche sul recupero di antiche varietà di materie prime, da cosa nasce?

Provengo da una famiglia di agricoltori e dunque sono cresciuto in contatto con la natura. Ciò mi ha permesso di offrire una prospettiva diversa dalla quale osservare materie prime semplici: modificando la costruzione classica del piatto, cerco di ripensarlo in funzione delle emozioni e suggestioni che voglio lasciare al cliente. Mi hanno sempre dipinto come antesignano; ad esempio, il mio piatto – Riso in bianco – proposto 6 o 7 anni fa creò un certo clamore. Attualmente, però, sto ridisegnando la mia cucina, in quanto anche il mondo delle erbe aromatiche o spontanee sta vivendo un periodo di omologazione; persino l’industria propone oggi insalate con varietà particolari.

Come coniughi la tua idea di essere controcorrente con la capacità di garantirti una tua clientela?

Ad essere sincero, sono stato aiutato un po’ dal territorio in cui lavoro e un po’ dalla mia costante attività di studio e di ricerca. Continuo a far prove in cucina che mi servono a sperimentare nuovi abbinamenti e studiare anche le risposte del cliente. Ognuno ha una sua vita, una sua esperienza ed un certo background; pertanto è difficile proporre un piatto che possa soddisfare tutti, ma mi impegno nel realizzare al meglio le mie ricette, smussando gli eccessi in cui mi farebbe cadere la mia creatività. La tecnica è un mezzo per arrivare ad un certo risultato, ma è indispensabile mediarla con una propria sensibilità personale.

Come mai hai deciso di stabilirti a Torriana?

Perché ho trovato in Fausto e Stefania due persone eccezionali, disposte ad affidarmi a soli 28 anni (l’età che avevo quando ho cominciato la mia collaborazione con loro) quanto avevano costruito in anni di sacrifici ed ostacoli. Sono originario di queste parti e ho trovato qui terreno fertile per crescere e migliorarmi; mi impegno costantemente per ringraziare i proprietari della fiducia che mi hanno sempre dimostrato. Siamo riusciti, non senza difficoltà, nel nostro obiettivo di far venire le persone, incuriosite dalla nostra cucina, qui a Torriana, lontano dalle mete turistiche tradizionali.

Come ti orienti nel proporre il tuo menu a sorpresa? Come riesci a capire chi hai di fronte e dunque a capire se puoi “osare” o meno nelle ricette?

I miei menu sono una sorta di arma a doppio taglio. Stefania mi aiuta nel capire l’interlocutore e, dunque, se posso o meno osare. Non mi relaziono direttamente con gli ospiti, perché credo che la presenza dello chef in sala possa creare un po’ di soggezione.

E dunque, come interpreti gli chef che aprono molti locali?

Per me, è già estremamente difficile emozionare con un piatto. E pensare di riprodurre migliaia di copie identiche è forse impossibile. Ciò che conta è il risultato: la presenza dello chef in cucina può ben predisporre in termini di approccio mentale, ma se il cuoco è riuscito a raggiungere un livello buono o eccellente di standardizzazione delle ricette, non sono infastidito dal non trovarlo tra i fornelli.

Quanto pesa per te il territorio nella tua cucina e come lo interpreti?

Pesa moltissimo. Posso paragonarmi ad una spugna e definire il territorio una pozzanghera: una volta immerso e strizzata la spugna, ciò che resta è terroir. Tutto dipende da quanto vieni inzuppato e da dove cadi. Tuttavia, esistono anche taluni spunti e suggestioni che scaturiscono direttamente dal cliente o da una particolare esperienza.

Come definiresti l’Osteria del Povero Diavolo: una dimora, un luogo poliedrico…

Un luogo in cui chi entra deve star bene e lasciarsi alle spalle i problemi e la routine quotidiana; un ambiente in cui riscoprire l’approccio alla tavola, che deve essere più sciolto e sereno, un momento puro e autentico di convivialità. Il mio lavoro è quello di suggestionare il cliente, portandolo a riconoscere le materie prime nel piatto, le loro sfumature, emozionarlo. Spesso, sono rammaricato dalle persone che armeggiano a tavola con i cellulari; credo che questo abbia logorato il gusto di riscoprire la cultura del cibo.

Come definiresti la cucina in generale ed il tuo stile?

La cucina in generale nasce come una dimostrazione di affetto verso qualcosa in cui credi, ma ora sta diventando semplicemente una moda, in quanto tutti ne parlano. La mia cucina è viva, nel bene e nel male, in quanto rispecchia la mia personalità, anche se la gente, spesso, ha una visione distorta del mio iter di studio e ricerca.

La tua cucina è incentrata sulla reperibilità e stagionalità degli ingredienti. Come coniughi questa impostazione con la tua creatività?

Semplicemente, facendo prove continue perché solo con costanti ricerche e sperimentazioni si può trovare qualcosa di effettivamente nuovo.

Alcuni ti definiscono uno chef di territorio, altri uno chef capace di dare un nuovo volto alle materie prime, specie agli ortaggi ed erbe aromatiche. Tu come ti definiresti?

Mi posso definire un cercatore, in tutti i campi e di tutto. Forse, talvolta, anche di me stesso.

Ti definiresti uno sperimentatore?

Più cercatore e meno sperimentatore, perché mentre il primo è costantemente impegnato in un’attività di studio, il secondo parte dai risultati di chi, di continuo, è attivo nel ricercare nuovi stimoli. Il cercatore è più romantico e naif – in quanto, perseverando, raggiunge l’obiettivo -,lo sperimentatore, invece, è più razionale.

Esiste un piatto del cuore, un must che non toglieresti mai dalla carta?

Esistono piatti più rappresentativi, ma non uso legarmi ad una ricetta. Tuttavia, alcuni sono legati a ricordi importanti o a specifiche emozioni. Portate rimaste nella “storia” della mia carriera sono il riso bianco o il pomodoro in salsa, che la gente spesso mi domanda, quasi alla ricerca di punti di riferimento in uno stile creativo e dinamico come il mio.

Per colpire una persona (amici, parenti, compagna) che piatto prepareresti?

Forse zucca o rape rosse perché sono le materie prime meno apprezzate dal pubblico.

Il tuo prossimo obiettivo o sogno?

Vorrei fare un viaggio di almeno un anno alla scoperta di nuove culture e cucine. Ad esempio, mi piacerebbe poter visitare il Tibet. Il viaggio è un’esperienza che ti arricchisce, perché, trascorso un periodo lontano dalla routine, dalla famiglia e dagli amici, torni con un bagaglio diverso e guardi con occhi differenti la realtà cui prima eri avvezzo.

C’è una persona cui ti ispiri maggiormente o dalla quale hai tratto maggiore ispirazione?

Ho avuto due maestri importantissimi, che stimo nonostante la nostra visione su talune tematiche  sia divergente. La persona che più mi ha insegnato e segnato nella mia crescita personale è mio padre. Non distinguo mai tra “Pier Giorgio” nella vita privata e “Pier Giorgio” chef; può essere uno svantaggio, ma la mia cucina riflette appieno il mio essere.

Come nasce l’idea di mettere a disposizione dei clienti libri di saggistica e cultura locale?

È stata un’idea di Fausto e Stefania, per stimolare le persone a riappropriarsi del tempo e della bellezza dei piaceri di un tempo. È molto vicina alla mia filosofia di cucina, in quanto desidero che le persone riscoprano il piacere di riunirsi intorno alla tavola.

Da cosa nasce il tuo evento “Spessore”?

Dall’idea di creare sinergie e opportunità di confronto tra giovani chef. È una dura prova per i ragazzi che devono affrontare questa “sfida” con se stessi con il giusto spirito e maturare l’idea di dover esprimere il proprio io attraverso la cucina. Senza timore di sbagliare.

Esistono ancora quei posti in cui desinare o cenare non significa semplicemente appagare i piaceri del palato, ma concedersi una piacevole pausa. Una sosta per riflettere sui valori profondi di una cucina che nasce dal cuore, e di un’ospitalità che sorge da un ben radicato credo. E tutto questo accade proprio all’Osteria Povero Diavolo di Torriana.

Photo credits

Manuela Mancino

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