Dove la via Emilia incontra il Po, nel cuore della Val Tidone, Torre Fornello racconta con i suoi vini la storia di un terroir inesplorato. Un territorio che si snoda lungo le colline emiliane, nelle vicinanze del Po, il “grande fiume” di cui si sente costantemente il respiro. È proprio qui che Torre Fornello si adopera per preservare e continuare un passato di lontane origini, fatto di un succedersi di casati, nobili famiglie e antichi mestieri.
Risalgono, infatti, al 1028 le prime testimonianze scritte dei terreni di Fornello, all’epoca lasciati in eredità ad un ricco casato locale da Diacono Gerardo. Al 1400, invece, risale la costruzione del forno per la cottura dei sassi di calce provenienti da Calcinara, ove insiste parte dei vigneti; una destinazione d’uso testimonianza della fiorente attività edilizia del luogo. Allo stesso secolo è riconducibile la Torre, eretta a difesa del feudo, che ha assistito alle alterne vicende di dominazioni, ampliamenti e ristrutturazioni, per giungere sino al 1972, anno in cui passa alla famiglia Sgorbati, da sempre dedita alla viticoltura.
Ma si dovrà attendere il 1998 per un più incisivo restauro dell’azienda, fortemente voluto da Enrico, il quale si preoccupa di guardare alle storiche radici della proprietà di famiglia con lo sguardo di chi è proiettato al futuro. E così, da questo profondo legame ad un cru che ha qualcosa di fiabesco, inizia l’ “avventura” dell’appassionato Enrico. Un percorso formativo, figlio del desiderio di interpretare al meglio i vitigni più o meno autoctoni, che lo conduce, in cerca di prime esperienze, tra le aziende limitrofe, ove ha la possibilità di apprendere l’indole, a volte “spigolosa” e a volte più “gentile”, di uve dall’intrinseco potenziale.
Il 1997, anno della prima vendemmia a Torre Fornello, segna per il giovane Enrico una sorta di “battesimo” con le propria Terra. Inebriato dal profumo del mosto e affascinato dalle tinte aranciate dei vigneti in autunno, decide di voler rivivere, ogni anno, quella stesa emozione. Quel sentimento, autentico e spontaneo, che si riaccende ad ogni vendemmia, concepita quale rito e motivo di ritrovo; un momento in cui la protagonista “uva” sembra quasi arretrare e cedere il passo alla convivialità di un sorriso, all’intesa che, quasi per alchimia, sorge tra i braccianti impegnati nelle fatiche della raccolta.
Motivo di gioia e di orgoglio, ogni grappolo si fa primo interprete del terroir: i reperti di epoca romana ritrovati nel Po’ piacentino sono l’emblema dell’antica vocazione enologica di questo lembo d’Italia, che Torre Fornello sottrae all’oblio, rispettando appieno la normale ciclicità della vite. Un’attenzione che non si limita all’inerbimento controllato – capace di irrobustire la pianta – ma si estende a ridurre i trattamenti di rame e zolfo, alla legatura e alla potatura manuale. E la vite sembra quasi ringraziare della cura riservatale e del tanto lavoro compiuto “nei campi”, regalando un nettare che è il ritratto, diretto e immediato, del proprio carattere e della filosofia aziendale.
A Torre Fornello, dunque, realizzare un’etichetta significa esprimere la genesi di una tradizione e cercare, nella moderna tecnologia, la fonte da cui attingere prassi e conoscenze utili a colmare i vuoti inevitabilmente lasciati da desuete pratiche enologiche. Ed ecco allora che la vendemmia, rigorosamente condotta a mano – “come una volta” – si appoggia al sapere moderno, trovando nella crioselezione – congelamento delle uve in vendemmia mediante azoto liquido – l’espediente idoneo ad estrarre, attraverso successiva pressione, un mosto di elevato profilo organolettico. Un profumo che rimanda al terreno argilloso e di medio impasto, che richiama alla mente quei luoghi carichi di storia e cultura, dove l’opera dell’uomo ha saputo integrarsi alla natura, creando un patrimonio unico. Unico (e inimitabile), come l’etichetta-simbolo della cantina: “Una”, figlia di un’attenta selezione degli acini di Malvasia aromatica di Candia, attaccati da botrite e coltivati in un appezzamento bio di neppure un ettaro di estensione. Raccolta a dicembre, quando la valle limitrofa si colora di bianco, questa vendemmia tardiva porta il timbro di quel declivio, nei pressi di Ziano Piacentino, che guarda il Rio Volto.
Complesso, intrigante il profilo olfattivo di questo vino, che vira dalla frutta matura al balsamico, da una delicata speziatura alla menta, percorso da una vena minerale e quasi fumé. Compagno di piatti di pari intensità aromatica o di un piacevole momento di tranquilla solitudine, si lascia scoprire lentamente, come – del resto – il cru di cui è figlio.
Quale dedica alla “terra natia”, a quel costume che fa preferire nel piacentino vini mossi o frizzanti, nasce la linea dei tre spumanti, anch’essi equilibrato mix tra il passato di consuetudini locali, e presente. Il metodo Champenoise impera su ciascuna etichetta – Enrico I (80-90% Chardonnay, 20-10% Pinot Nero e 30 mesi sui lieviti), Pinot Rosé (80-90% Pinot Nero, 20-10% Chardonnay, 18 mesi sui lieviti) e Olubra (90% Marsanne, 10% Malvasia aromatica di Candia, 9 mesi sui lieviti) – cosi come la firma della cantina del 1400-1600 che, sorgendo su antiche falde acquifere, assicura un’umidità costante (70-75%) e l’ossigenazione della bottaia.
Ritorna il leit motiv del connubio perfetto tra epoche trascorse e futuro, nel progetto aziendale “Gioielli in fermento”, concorso internazionale per la realizzazione ed esposizione di un gioiello a tema, facendo di quest’ultimo il narratore del mondo del vino e del suo terroir, dei fattori e dei valori culturali dai quali attingere. Giunto alla quarta edizione, le tematiche trattate (Vestire le intensità; I colori del vino; Indossare le sensibilità, le intensità, le culture mediterranee con un ornamento contemporaneo) hanno sugellato il legame tra esperienza soggettiva e quella tradizione mediterranea che trova nel vino il primo paladino per il proprio riscatto.
Arte, emozione, testimonianze di un fertile passato e un orientamento al contemporaneo sembrano fondersi armonicamente anche nel marchio: la maestria nel subordinare al protagonista – il vino – il disegno presente sulla bandiera segnavento della Torre, trasfigura l’originario stemma di 3 stelle a 8 punte nei quattro punti cardinali del gusto. Sapido, dolce, acido, amaro…i riferimenti del nostro palato che, ad ogni sorso delle etichette di Torre Fornello, sembra perdere l’orientamento, inseguendo le suggestioni olfattive e gustative create da ogni calice.
Ciascuna etichetta riporta il degustatore alle bellezze dei vigneti che si snodano lungo ameni colli, alla caratteristica struttura dell’antico feudo (ora sede della cantina), alla chiesa seicentesca da questo custodita, allo sguardo di Enrico che, con amore e fierezza, mostra ai visitatori le proprie vigne.
Photo credits
Manuela Mancino