Masseria Li Veli: un angolo di Puglia che parla di storia e vitigni autoctoni

Se la Puglia è un istmo che si allunga tra Ionio e Adriatico, Masseria Li Veli è un ponte tra la cultura di Oriente e quella di Occidente. Per rendersene conto, basta oltrepassare la soglia di questo tempio del vino, alle porte di Cellino San Marco (BR), laddove un tempo correva il limite dei Messapi, letteralmente “popoli tra i due mari”.

Una terra di confine che qui si esprime permeando ogni aspetto: dalla struttura al sesto d’impianto, dalle forme di allevamento ai vitigni, tutto testimonia il lungo succedersi di popoli e alternarsi di dominazioni. Sui resti di un antico sito messapico, la Masseria Li Veli getta le proprie fondamenta, solide, capaci di resistere alle vicissitudini che l’hanno vista protagonista nel corso dei secoli.

È proprio in questa regione, culla dell’ospitalità italiana per antonomasia, che il Marchese De Viti De Marco, economista leccese di fama internazionale, trovò asilo al termine della sua carriera politica e dopo aver rifiutato i precetti del manifesto di Mussolini. Acquistò la Masseria, dove morì senza eredi, lasciando il patrimonio alla fondazione da lui precedentemente istituita che, però, disseminò la proprietà.

Fu nel 1999 che la famiglia Falvo, vigneron toscani di antica tradizione, colpita dalle bellezze della Puglia, rilevò “Li Veli” con l’obiettivo di valorizzare i vitigni autoctoni. Il desiderio di sfruttare le inespresse potenzialità di questo terroir porta la famiglia a recuperare il tipico nucleo economico/produttivo normanno, destinato a cantina agli inizi del Novecento, inglobando nell’azione di restauro i resti medievali.

Ed è così che la lungimiranza dei Falvo si fonde sapientemente al passato per proiettare la Masseria verso il futuro…Non più “solo” ponte tra due culture, ma anche e soprattutto anello di congiunzione tra passato, presente e futuro. Partendo, dunque, dal rispetto delle tradizioni, vengono introdotte innovazioni sostanziali per assicurare la massima qualità nel calice finale: l’accorgimento in vendemmia nel non riempire le cassette, lo stazionamento delle uve a zero gradi per un paio di giorni, la vinificazione a temperature controllate sono soltanto alcuni dei passi compiuti per raggiungere il traguardo prefissato. Ma, come l’enologia insegna e la Natura conferma, il grande lavoro va compiuto in vigna, tra quei 33 ettari di alberello pugliese con sesto d’impianto a Settonce che, ancora una volta, rimanda al  passato. È agli ingegneri militari romani che si deve, infatti, questa peculiare forma di allevamento, chiara riprova del loro ingegno: massima insolazione delle chiome e circolazione dell’aria, agevolazione della lavorazione del terreno sono i benefici lasciati ai posteri dai figli della lupa.

masseria li veli interno

Un’istantanea senza tempo: il nitore del carparo (pietra affine a quella leccese), viti che affondano le radici in un terreno carsico tendenzialmente sabbioso, la Masseria a cavallo di secoli che si staglia sullo sfondo di un cielo azzurro, proteggendo i vigneti dal “ventu” salentino. I nostri cugini d’Oltralpe non tarderebbero a definire questo unicum un cru…ma al di là di uno scatto dell’affascinante paesaggio pugliese si cela un progetto da scoprire, un progetto che reinterpreta – elevandolo – il concetto di “territorio”.

Li Veli, dunque, fa da apripista e modello per chi era già impegnato in una lotta conto lo stereotipo che aveva relegato la Puglia a “cantina d’Europa”. Nasce, così, dall’ardore di elevare il profilo qualitativo della produzione l’anelito di recuperare varietà autoctone che richiamano alla memoria i trascorsi di terra di passaggio dell’intera regione. Negroamaro (forse introdotto dai Greci), Susumaniello (probabilmente originario delle coste dalmate), Malvasia Nera (proveniente dal Peloponneso), Aleatico (dalla Magna Grecia) sono alcuni dei vitigni allevati in questa culla, sotto l’occhio vigile dei Falvo. Il loro nettare, figlio del sole e della maestria di chi ha instaurato con questo lembo d’Italia un profondo legame, regala un’etichetta mai banale, capace di racchiudere in un calice il ricordo di un terroir e la passione dei viticoltori.

Ad arricchire il sorso non è solamente il piacere di ritrovare il corredo gusto-olfattivo caratterizzante il vitigno, ma anche e soprattutto il pathos con il quale la famiglia continua il proprio lavoro, un sentimento che emerge chiaramente in un vino in grado di sedurre il palato e scaldare l’animo.

Nutrite dall’amore di una famiglia unita nel segno della promozione autentica, le etichette della Masseria rappresentano un presidio che protegge la cultura enologica locale dall’oblio.

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Manuela Mancino

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